Due recenti sentenze meritano di essere segnalate perché rappresentano due esempi di come concretamente le disabilità debbano essere tutelate.
E così nella sentenza n. 2875 del 28.10.2016, il Tribunale del Lavoro di Milano, Est. Dott. Mariani, ha affermato che:
<< (…) il quadro normativo italiano in tema di periodo di comporto, con particolare riferimento alla categoria dei disabili, debba essere oggetto di una interpretazione costituzionalmente orientata (…)
In applicazione dell’art. 2 della direttiva comunitaria 2000/78/CE, nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro, al fine di evitare la discriminazione indiretta in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, va ritenuto obbligato ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione (come sottrarre dal calcolo del comporto i giorni di malattia ascrivibili all’handicap o individuare un ulteriore giustificato motivo del licenziamento)>>.
Nel caso specifico, il Giudice era stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore disabile, che aveva effettuato un numero di giorni di assenza per malattia superiore al periodo massimo di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei Servizi Ambientali.
Ebbene, il licenziamento è stato dichiarato nullo dal Giudice con conseguente reintegra nel posto di lavoro del lavoratore licenziato e diritto a percepire tutte le retribuzioni perse dal licenziamento fino alla effettiva reintegra.
Il Giudice ha infatti ritenuto che il licenziamento originasse da una condotta discriminatoria del datore di lavoro consistita nell’avere applicato ad un disabile la normativa sul “periodo di comporto”, senza alcun accorgimento o differenziazione rispetto ai dipendenti privi di disabilità.
Difatti, è verosimile che una persona affetta da handicap si trovi particolarmente svantaggiata, avendo molte più probabilità di una persona normodotata di arrivare a superare il periodo di comporto.
Perciò, la censura che il Giudice muove all’azienda è di non avere attuato nei confronti del lavoratore disabile quella cauta differenziazione nell’applicazione della normativa sul comporto, che avrebbe consentito di tutelarne la diversa condizione.
L’azienda avrebbe dovuto escludere dal calcolo del comporto tutte quelle assenze direttamente ascrivili alla disabilità del lavoratore, ovvero provare in giudizio <<che l’intero periodo di assenza era assolutamente indipendente dalla sua patologia, cosa che, invece, agli atti risultava chiaramente>>.
L’altra pronuncia che qui si segnala, è quella in cui la Suprema Corte di Cassazione afferma che:
<<(…) la disposizione della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati – alla luce dell’art. 3 Cost., comma 2, dell’art. 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con L. n. 18 del 2009 – in funzione della tutela della persona disabile. Ne consegue che il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte>> (Cass., 12.12.2016, n. 25379).
La controversia riguardava una lavoratrice non in grado di accettare il trasferimento della sua sede di lavoro in quanto le avrebbe reso difficoltoso assistere la madre affetta da handicap. L’azienda ha insistito per la legittimità del trasferimento sostenendo che la lavoratrice non sarebbe stata in possesso del necessario accertamento della “gravità” dell’handicap sofferto dalla madre, da parte della ASL o delle Commissioni Mediche previste dall’art. 4 L. n. 104/92.
La Corte invece censura la condotta datoriale che:
- da un lato, non ha valutato se le esigenze di assistenza del familiare disabile prospettate dalla lavoratrice fossero serie e rilevanti sulla base della sola documentazione esistente;
- da altro lato, non ha provato che sussistessero esigenze produttive urgenti e tali da non potere essere soddisfatte se non con il trasferimento della lavoratrice.